ROSSO RUBINO
Racconta un’antica leggenda che dove sorge la valle di Kathmandu c’era in origine un immenso lago, al centro del quale un barcaiolo vide scintillare un fiore di loto con i petali d’oro incastonati di pietre preziose. Il lago fu prosciugato e il magico fiore venne rinchiuso dentro un altare di pietra sulla cima della collina emersa dalle acque, e su quella pietra fu eretto poi un tempio: Swayambhunath, dove gli occhi di Budda dalla cima dello Stupa dominano la città. Occhi che guardano lontano, in ogni direzione.
Una leggenda. Metafora, a mio vedere, del piccolo gioiello che si nasconde tra i fianchi delle montagne più alte del mondo.
Il Nepal. Sfaccettato come un rubino nella diversità del territorio, dalle foreste tropicali delle zone pianeggianti alle punte di diamante dell’Himalaya, la dimora delle nevi eterne. Sfaccettato nella diversità di etnie, culture, tradizioni e religiosità cresciute pacificamente fianco a fianco: grande testimonianza di civiltà, nella storia di una umanità le cui genti si sono massacrate per imporre come dominante la propria stirpe e il proprio credo.
Un rubino. Rosso come il colore della bandiera nepalese, su cui spiccano un arco di luna e un sole raggiante a rappresentare la natura pacifica e fiera del suo popolo. Rosso come il fiore nazionale, il rododendro, presente ovunque ai bordi delle strade, nei sentieri di montagna, nelle ghirlande di fiori offerte in segno di rispetto: rispetto per le innumerevoli divinità che popolano l’olimpo hindu e rispetto per il divino che è nel cuore umano, per la sua sacralità. Rosso come il tilaka, il grumo pastoso apposto al centro della fronte nel punto che identifica il chakra ajina: il terzo occhio, dove si concentrano le energie spirituali. Rosso come gli abiti dei monaci buddisti, gli scialli delle donne e i loro sari, pennellate di porpora emergenti nella folla caleidoscopica dei vicoli, le piazze, i templi dove si svolge frenetica e pigra la vita della comunità. Rosso come il sangue versato nei dieci anni di “guerra del popolo” che ha portato alla proclamazione della Repubblica Democratica del Nepal e la destituzione dell’ultimo monarca, il più sanguinario di una dinastia che ha dominato per due secoli e mezzo forte del mantenimento di un antico sistema feudale e privilegi di casta. Una guerra che ha generato tredicimila vittime tra combattenti e civili, oltre all’impoverimento di un Paese che già era in fondo alla lista dei più poveri.
Un rubino prezioso. Per l’immenso patrimonio artistico e naturale. E il patrimonio umano di una popolazione povera di tutto e ricca di altra ricchezza: bellezza, fierezza, dignità, valori fuori mercato.
Per me, come per molti che amano il Nepal, è stato amore a prima vista. Erano gli anni settanta. Quando per i “backpackers” – appellativo in cui lo zaino era indice di viaggiatori con scarsi mezzi e grandi aspettative – l’oriente rappresentava una via di fuga e terra di ricerca, un territorio non contagiato dal vento appestato d’occidente. Ci lasciavamo alle spalle la corsa allo sviluppo e agli armamenti, le guerre fredde e calde, il sogno americano esportato oltre oceano e il nostro sogno generazionale di fare un mondo migliore, sogno che in pochi anni si era trasformato in un incubo collettivo.
La via dell’oriente aveva come destinazione finale Kathmandu. E lì arrivai dentro un pulman sgangherato passando dalla frontiera indiana.
Scavalcata dai corpi all’assalto del bus ero finita in ultima fila schiacciata contro il finestrino, mi vedevo proiettata in bilico a ogni tornante sullo strapiombo che la coda del pullman sovrastava curvando mentre le ruote slittavano ai bordi della strada dove non c’era muretto di sostegno. Un percorso lunghissimo, allungato dalle soste per raccogliere passeggeri da stipare dove c’era ancora qualche centimetro di spazio, soddisfare le comuni esigenze corporali, rifornire d’acqua il motore surriscaldato, recuperare un cerchione caduto tra un sobbalzo e l’altro sulla via dissestata e stretta abbarbicata come un serpente intorno alla montagna. E finalmente eccola, tra i pinnacoli e i tetti a pagoda, nella nebbia che i primi raggi del sole tingevano di rosa. La città delle fate. Custodita da maghi giganti con i cappelli bianchi a punta che bucavano il cielo.
Ventiquattro ore dopo avevo la sensazione che quanto mi aveva colpito gli occhi e l’anima attraversando il continente indiano si fosse riversato tra quei cortili, le piazze e i templi. Concentrato, come la folla dei sadhu che da ogni parte dell’India si concentrano a Pashupatinath per celebrare lo Shivaratri. Come il pellegrinaggio dei buddisti a Lumbini, terra natale del Budda Siddharta Gautama. Come un’essenza di diverse componenti, diffusa dal fumo dei fuochi e degli incensi che bruciano nei bracieri, essenza che si respira dove sollecitati dal tocco di campane e campanelli, dal salmodiare di preghiere e mantra, dal ritmo incalzante dei tamburi, i sensi sono interpreti di intima spiritualità.
Come capita quando si arriva in un luogo in cui ci si sente a casa, dopo pochi giorni di ambientamento mi ero accasata. Presso una famiglia nepalese che viveva in piccolo borgo al di là del fiume, sulle pendici della collina di Swayambhu. Non era Shangri-La. Ma in quel piccolissimo mondo a parte separato dalla città da pochi chilometri di campagna, forse suggestionata dal candore delle cime imbiancate che nelle giornate limpide inducevano candidi pensieri, mi sembrava di sentire la magia del prezioso fiore di loto che secondo la leggenda si nasconde alla base del tempio di Sowayambhu, detto anche tempio delle scimmie per la popolazione che lo ha eletto a dimora. Le scimmie che venivano a razziare le provviste lasciate incustodite, a casa di Sunita.
Era una casetta intonacata a calce color ocra, con una porticina e quattro finestrelle che mi ricordavano la casa dei sette nani nell’illustrazione di un libro di favole. Costruita con il favore degli dei e l’aiuto di familiari e amici, diceva Sunita, giovanissima madre di tre bambini l’ultimo dei quali si affacciava dallo scialle che lei portava ancorato alle spalle mentre lavava i panni, cucinava, zappava il fazzoletto di terra dove cresceva l’orto, accudiva la capra e le galline che razzolavano anche in casa, sull’impiantito di sterrato. Il pavimento sarebbe arrivato poi, quando la scatola dei risparmi raccolti fornendo vitto e alloggio ai pellegrini fosse stata piena dei mucchietti di rupie che io le mettevo in mano a fine settimana. Poche, e accettate da Sunita con il sorriso imbarazzato di chi non è abituato a dare un prezzo all’ospitalità.
Era molto bella, Sunita. Come sono specialmente belle le donne nepalesi, una bellezza che non ha bisogno di effetti speciali per essere esaltata. Il peso dell’enorme cesto ancorato alla fronte in cui donne di ogni età trasportano pietre, tronchi e balle di fieno che le fanno sembrare pagliai semoventi, piega loro la schiena, contrae i tratti del viso nello sforzo. Ma quando si liberano del carico torna il sorriso, torna la luce nello sguardo, la grazia dei movimenti di corpi che la natura ha generosamente dotato quasi a compenso della durezza della loro vita, da quando si fanno madri bambine di fratellini e sorelline da accudire e un padre da servire, a quando come mogli devono accudire il marito, i figli, la casa, la terra e le bestie. Una vita che scava i loro volti di solchi profondi ma non le umilia. Perché sono tenaci, forti. Una forza che si nasconde dietro la naturale femminilità e l’atteggiamento apparentemente remissivo, e quando si mostra le fa fiere come regine detronate.
Quando sono tornata in Nepal erano passati molti anni. Troppi, per aspettarmi di ritrovare lo stesso mondo che avevo lasciato.
Della guerra civile poco si parlava nei nostri bollettini, le notizie se arrivavano si perdevano nella fiumana che esondava da più vicini e minacciosi fronti. Sulla scia emotiva del settembre 2011 era in corso la caccia al terrorismo di ogni fede e bandiera, caccia in cui erano stati inclusi i maobadi nepalesi, declassati da combattenti per la liberazione al ruolo di terroristi. Gli aiuti angloamericani non mancavano. Briciole, ma sufficienti a foraggiare l’esercito del re: un re subentrato al trono dopo la strage di famiglia di cui era sospettato mandante. Così stavano le cose.
Dopo ventiquattro ore di aereo tra scali e ritardi, nell’ultima tratta mi ero addormentata. Quando mi sono svegliata eravamo in fase di atterraggio e l’ala dell’aereo sorvolava le cime dell’Himalaya, un olimpo di ghiaccio che in quella striscia di cielo sopra le nuvole si mostrava senza veli.
L’Himalaya. Una catena che invece di chiudere, apre. E lo sguardo spazia, valica colline, sale e scende per sentieri calpestati tra foreste e macchie, percorre vie sterrate che costeggiano terrazze coltivate tra i gialli i verdi gli ocra i rossi della terra, come un immenso patchwork che riveste vallate e pendii finché c’è solo roccia ghiaccio e cielo. Dove la mente sconfina leggera, quasi il vento che soffia attraverso le foreste arrampicate a dorso di collina l’attraversi scuotendo via pensieri appassiti come foglie caduche e lasciando sui rami le gemme.
L’aeroporto di Kathmandu, se non fosse stato per i manipoli di militari armati che andavano su e giù controllando quanto era stato già più volte controllato, era lo stesso aeroporto da cui ero partita quasi trent’anni prima, lo stesso di ogni Paese povero che non ha risorse per abbellire la propria immagine all’arrivo dei visitatori. Fuori, lo stesso pigia pigia per accaparrarsi un potenziale cliente. Ho scelto il più giovane dei tassisti che si sbracciavano per attirare la mia attenzione, e il sorriso di cui mi ha graziato è stato il primo che ho riconosciuto.
Da dove viene quel sorriso. Quante volte me lo sono chiesta, ogni volta che torno in Nepal. In quel momento, mentre attraversavamo i posti di blocco e il ragazzo al volante di un’auto che sembrava appena uscita da un centro di rottamazione continuava a sorridere – un sorriso che rimbalzava contro il muro impenetrabile delle facce cupe e tese dei soldati con il mitra in mano – mi sono detta che la forza di quel popolo era lì, in quel sorriso inerme, disarmante.
Avevo prenotato l’albergo prima di partire scegliendo la mia base a Swayambhu sulla base di un ricordo nostalgico. E da lì è iniziata la mia giornata. Idealmente accompagnata dallo sguardo imperturbabile del Budda sopra la città.
Ero preparata al look post-moderno del nuovo bazar turistico, al groviglio di ristoranti e caffetterie con menù per tutti i palati, hotel e guest-house per tutte le tasche, pub e discoteche, agenzie di viaggio per esotiche avventure a prezzi popolari e negozi per le attrezzature e abbigliamento d’alta montagna griffato in Nepal. E’ la legge della domanda e dell’offerta, una legge universale: quante vie storiche delle nostre città d’arte sono diventate in pochi anni un’unica jeanseria senza soluzione di continuità? Ero preparata al caos del traffico urbano e all’inquinamento prodotto da vecchie carcasse a quattro ruote: dove non c’è ricchezza non si butta niente, anche la salute è un lusso. Insomma, avrei gustato la seconda colazione accarezzata dal tepore del sole nel giardinetto di una coffee-house di Thamel filosofeggiando sul bene e il male della globalizzazione, se non mi avesse annodato la gola la miseria che avevo calpestato scendendo da Swayambhu, uno scenario di miseria urbana che aveva sostituito le scene agresti di cui quello spazio di terra era stato teatro. Le vie sterrate traversate da solchi profondi scavati dalle piogge, i cavi dell’elettricità penzolanti sulle facciate di casupole precarie come costruzioni di un gioco per bambini, la baraccopoli che si estendeva a vista d’occhio sulla riva di quello che prima di diventare una discarica di rifiuti era stato un braccio di fiume, le montagne di immondizia dove insieme alle mucche ossute, i maiali luridi di sterco e fango, i cani randagi scheletrici e rognosi, rovistavano donne e bambini. La periferia degradata di una città malata. Una città di cui il modello di sviluppo venuto da occidente – imposto, sovrapposto come una mano di vernice su un muro segnato da crepe profonde – aveva deformato il volto. E la guerra aveva reso triste. Triste come lo sguardo di Raj.
Raj era un ragazzino infagottato nei pantaloni sdruciti rigirati sopra le ciabatte di plastica, il maglione slabbrato e il berretto di lana calcato sulla fronte fino agli occhi, gli occhi di un adulto che ha alle spalle una lunga sofferenza. Mi ha abbordato all’uscita del labirinto di Thamel. “Shoe-shine?” Io ho detto no, lui non ha insistito. Ho fatto qualche passo, mi sono girata, il ragazzino che non sorrideva era ancora lì con lo zainetto in spalla e mi guardava. Gli ho fatto un cenno e lui si è avvicinato, io ho detto okei, lui ha ciondolato la testa, okei.
“Sono ridotte male,” ha constatato poi con una certa soddisfazione esaminando lo stato delle mie scarpe. Ha tirato fuori dallo zaino il suo armamentario, un paio di vasetti uno straccio e una spazzola, e levati i lacci ha cominciato a passare la crema con cura insistendo nei punti dove la pelle era più consumata. Lavorava con metodo, seguendo una tecnica che doveva conoscere bene. “Sei bravo,” gli ho detto, “ma alla tua età dovresti andare ancora a scuola. Dov’è la tua famiglia?”
Senza sospendere il movimento della mano Raj mi ha guardato con la stessa espressione con cui aveva esaminato le mie scarpe. Forse per capire se doveva interpretare le mie domande come interessamento o un interrogatorio, se poteva fidarsi. E piano piano è venuta fuori la sua storia.
Raj era uno dei tanti orfani di guerra: i suoi genitori erano stati uccisi dalla polizia perché sospettati di connivenza con i guerriglieri. “Li hanno freddati a sangue freddo” ha detto Raj, duro, “ma un giorno o l’altro quei bastardi pagheranno il sangue dei miei genitori con il loro sangue.” E poi con un lampo di fierezza che gli ha fatto brillare gli occhi come due perle nere, ha aggiunto: “i miei fratelli sono andati a combattere nell’esercito del popolo. Ci andrei anch’io se non avessi due sorelline piccole a cui badare. Ma ora sono io il capofamiglia.”
La guerra. L’ultima speranza dei disperati. Avevo letto in un reportage dal Nepal del numero crescente di ragazzini tra i guerriglieri – alcuni di loro prelevati a forza dalla famiglia, si diceva – e di molte donne che avevano scelto di entrare in clandestinità per portare avanti la lotta. Una lotta a tutto campo, che nell’agenda includeva anche punto per punto quanto toccava più da vicino donne e bambini: le divisioni di casta e di genere e i tabù del fondamentalismo hindu, l’alcolismo e il gioco d’azzardo che sono la maggiore piaga delle famiglie più povere, la poligamia, il traffico del sesso, l’esclusione delle femmine dall’istruzione scolastica, il matrimonio obbligato di bambine a un’età in cui le nostre giocano ancora con le bambole.
“Quando vinceremo la guerra tutto cambierà,” ha concluso Raj restituendomi le scarpe come nuove. E ha sorriso.
Arriva per tutti il tempo del riscatto, diceva quel sorriso adulto, anche per i più poveri dei poveri. Riscatto pagato con il proprio sangue, chi non ha altro che quel bene da versare.
Tornando verso Swayambhu mi sono fermata a osservare il via vai intorno alla fontana dove le donne lavavano i panni e si lavavano, i corpi avvolti nei teli bagnati che luccicavano al sole come una seconda pelle dalle tinte accese. Poco dopo ero circondata da un plotone di angeli mocciolosi cacciati dal cielo. Hallo, sorrisi, sguardi curiosi timidi o spavaldi, e chi chiedeva una caramella, chi una penna, chi sfoderava le poche parole di inglese imparate a scuola, come ti chiami, da dove vieni. Finché esaurite le riserve di penne e caramelle nello zaino e le scarse possibilità di conversazione, abbiamo giocato. Acchiapparella, un gioco senza frontiere. E i sorrisi si sono trasformati in risate gioiose. Contagiose, come è sempre l’allegria.
Quando sono arrivata a Swayambhu era l’ora del tramonto e il quartiere cominciava a illuminarsi qua e là come di lucette sparse in un presepe mentre si accendevano le lampadine penzolanti dalle piccole botteghe, le torce sui banchetti degli ambulanti, le candele e i fuochi davanti alle baracche dove non arrivava l’elettricità. L’oscurità sfumava i contorni della miseria che la luce del sole aveva messo a nudo senza pudore, il traffico era rallentato, finito il via vai di turisti e pellegrini erano rimasti solo i residenti ad animare i vicoli e le piazze del tempio, dove ancora bruciavano gli incensi e il burro dei lumini, e i falò accesi nei bracieri tra i piccoli stupa di pietra e i tempietti hindu. Dove ancora si pregava, si recitavano i mantra cui faceva da controcanto il suono delle campane, dei tamburi e flauti. Sotto la luna, davanti a un firmamento di luci metropolitane incorniciato dal profilo nero delle montagne.
Cercavo di dare un ordine, una graduatoria, alle diverse suggestioni di quella giornata, ai sentimenti discordanti che si erano alternati, alle visioni apparentemente inconciliabili di squallore e bellezza che mi avevano accompagnato. Finché ho capito quanto era inutile quel lavorìo mentale. Perché male e bene, brutto e bello, tristezza e gioia, non sono opposti assoluti ma aspetti complementari della stessa realtà. Sono come gli avatara terrifici e protettivi dello stesso principio divino. Come fotografie diverse della stessa scena, dove dietro l’obiettivo c’è lo sguardo del fotografo che seleziona e mette a fuoco quanto in quel momento vede la sua anima: il bello o il brutto, il sorriso o la lacrima.
Di ragazzini come Raj ne ho incontrati molti negli anni seguenti, ragazzi cui guerra e miseria hanno rubato l’infanzia. Mentre la lunga marcia di accerchiamento della valle di Kathmandu da parte dei maobadi continuava, tra operazioni militari e strategiche a cui il potere rispondeva inasprendo le rappresaglie dell’esercito e la pressione sul popolo.
Dopo lo scioglimento del governo, l’assunzione dei poteri sotto la corona, la dichiarazione dello stato di emergenza, la soppressione di ogni libertà, di stampa, di espressione, di circolazione, per i guerriglieri non c’è stato bisogno di prendere con le armi l’ultimo baluardo del potere. A occupare Kathmandu è stato il popolo: centinaia di migliaia di civili che hanno marciato verso il palazzo reale sostenuti dalla coalizione di tutti i partiti di opposizione esautorati dal governo. Un bagno di sangue che ha decretato la fine del regime.
Affinché non si spargesse altro sangue, e soprattutto non sangue reale, il re si è fatto elegantemente da parte cedendo al popolo la sua sovranità e parte del bottino accumulato. Esiliato, non dal Paese, né dai suoi affari che continuano a prosperare, ma dal palazzo reale: oggi un museo dove le scolaresche vanno a vedere come vivevano i più potenti dei potenti. E con la proclamazione della Repubblica e libere elezioni, la formazione dell’Assemblea Costituente con il compito di redigere la Costituzione, la scesa in campo degli ex guerriglieri entrati di diritto a fare parte del nuovo governo, è iniziata la lunga marcia verso la democrazia.
Vorrei poter affermare, sei anni dopo la fine della guerra civile, che in Nepal tutto è cambiato: come sperava Raj. Ma il “tutto e subito” non appartiene al tempo reale.
Reale, nella sua lenta scansione, è il tempo necessario per costruire una identità nazionale che sia rappresentativa di un popolo così diversificato, e ricostruire una Nazione in cui ancora manca tutto a cominciare dai beni e servizi primari. Reale, nella sua crudezza, è il tempo storico che stiamo attraversando, tempo di vacche magre non solo per gli hindu, tempo in cui al grido si salvi chi può si lascia che affondino i più deboli.
Resta la speranza: che giovani mani abili e oneste ridaranno lustro al Nepal come Raj fece con le mie scarpe. Con un lungo e paziente lavoro, con capacità e buona volontà.
Patrizia Bisi